Entrai nel mondo del lavoro tra i 17 e i 18 anni, nel 1964. E per la prima volta mi trovai di fronte alla realtà. Ora i disegni tecnici che avevo fatto a scuola con grande passione e divertimento, li dovevo applicare alle lamiere di ferro per farle divenire strutture reali, da toccare con mano, per poter poi dire con orgoglio: “Questo l’ho fatto io!”. L’odore del ferro e degli olii emulsionati mi inebriavano e qualcosa dentro di me mi spingeva a guardare il ferro pensando a cosa ne potevo tirar fuori. Posso dire che sono nato con la passione per il disegno: quando ero alle elementari amavo copiare le battaglie riprodotte sui libri di storia, e lo facevo fedelmente e velocemente, la matita volava sul foglio comandata dai miei pensieri. Non era solo il disegno figurativo a darmi quelle sensazioni, provavo la stessa cosa per il disegno tecnico. Strano, ma non sapevo bene cosa fosse questa carica che sentivo in me. Forse era la creatività che germogliava nel mio essere più profondo? Lavorando, giorno dopo giorno acquisivo sempre più esperienza nella lavorazione dei metalli, ma non riuscivo ancora a realizzare qualcosa che mi soddisfacesse. Poi, un giorno, il fratello del mio datore di lavoro, professore all’ITI, mi spiegò che dovevo pensare al metallo come se fosse un maglione di lana: “Se tiri il maglione con le mani si allunga o si allarga a tuo piacimento, perché il filo intrecciato diviene elastico e tu puoi farlo. Vedi, la lamiera se la guardi solo con gli occhi è dura e indeformabile ma se la guardi con la mente essa prende la forma che tu vuoi; scaldala, plasmala ed essa diventerà quella che tu hai immaginato!”. Non poteva farmi regalo più bello! Da quel momento ho cominciato a parlare con i metalli come se potessero capire i miei desideri: quando modellavo con la fiamma e il martello chiedevo al metallo di dirmi quando era il momento di battere ed esso mi rispondeva acquisendo il colore dell’incandescenza: “dai, batti” – sembrava dirmi – “sono pronto a plasmarmi come tu mi vuoi!”. Agli inizi degli anni ‘70 mi iscrissi all’Accademia Trossi Umberti dove l’insegnante di pittura era il maestro Voltolino Fontani. Dopo aver fatto il mio primo disegno dal vero, il maestro mi fece passare direttamente alla pittura, anche se il corso di disegno sarebbe dovuto durare un anno. Fu così che terminò la mia avventura di allievo pittore! Il mio carattere ribelle non mi permetteva di accettare imposizioni: fu proprio il colore verde a farmi interrompere il corso; il mio verde era diverso e non potevo piegarmi a farlo uguale al verde del mio maestro, come lui voleva e come avevano fatto tutti gli allievi! La pittura, come tutte le altre arti, è sentimento e nasce dal proprio io, non da quello di un’altra persona. Nel periodo in cui lavoravo alla Moto Fides, con gli scarti delle lavorazioni eseguivo piccole sculture rappresentanti i capi reparto; mettendo in rilievo i loro difetti più evidenti; ed essi erano riconoscibili anche se i materiali usati erano solo tubi, piastre, molle e via dicendo. Tutto ciò però non mi soddisfaceva perché erano cose già viste, mentre io ero alla ricerca di qualcosa di diverso, di mio. Vedendo la mia opera si doveva poter dire: “È il Filippi”. Non mi interessava il giudizio critico positivo o negativo, dato da critici riconosciuti o da quelli che si sentono come allenatori della nazionale di calcio ... guardando le partite in Tv. La passione per l’arte in ogni sua forma viveva prepotente in me ed io sentivo di manifestarla in ogni suo aspetto: e cosi ho amato la poesia, la musica: ho dipinto ballando cantando e suonando. Ma la vera passione è stata ed è la scultura. Non mi sono mai prefissato di forgiare con le mie opere un messaggio pseudo intellettuale sui problemi della vita o della psiche: ho voluto realizzare in opera la cronaca di tutti i giorni, la vita della gente e delle cose comuni. Sono nati così: “Il Toro”, “La Pattinatrice”, “L’Orologio”, “Terzo Millennio”, “Il Rinoceronte”, “Le Scarpe”, “Il Cappotto”, “L’Armadillo” e la più grande “Libertà”, raffigurata da un uomo su una grossa moto Harley Davidson. Tutte realizzate sfruttando la mia capacità di lavorare i metalli, piegando e forgiando lamiere d’acciaio inox o di bronzo. Tutte rigorosamente forgiate e mai fuse. Quando mi domandano quanto tempo impiego a realizzare una scultura, quasi sempre rispondo: “Quarant’anni (ma di esperienza)”. I vari critici che hanno scritto di me hanno sempre messo in evidenzia la “pazienza, la costanza” che secondo loro mi occorrono per realizzare le mie opere. Io invece penso che un anno o più di lavoro massacrante non è nulla in confronto all’eternità, solo una goccia d’acqua nel mare! Contrariamente a tanti, il mio percorso è iniziato con l’informale ed è approdato all’iperrealismo. E così continuo il mio cammino: con la convinzione e la gioia profonda della certezza che queste opere resteranno dopo di me ed in esse io continuerò a vivere.
I entered the world of work between the ages of 17 and 18, in 1964. And for the first time I found myself facing reality. Now I had to apply the technical drawings that I had made at school with great passion and fun to the iron sheets to make them become real structures, to be touched with my hands, to then be able to proudly say: "I made this!". The smell of iron and emulsified oils intoxicated me and something inside me pushed me to look at the iron and think about what I could get out of it. I can say that I was born with a passion for drawing: when I was in elementary school I loved copying the battles reproduced in history books, and I did it faithfully and quickly, the pencil flew on the paper controlled by my thoughts. It wasn't just figurative drawing that gave me those feelings, I felt the same thing about technical drawing. Strange, but I didn't really know what this charge I felt in me was. Maybe it was creativity sprouting in my deepest being? As I worked, day after day I gained more and more experience in metalworking, but I still couldn't create something that satisfied me. Then, one day, my employer's brother, a professor at the ITI, explained to me that I had to think of the metal as if it were a wool sweater: "If you pull the sweater with your hands it stretches or widens as you like, because the braided thread becomes elastic and you can do it. You see, if you look at sheet metal only with your eyes it is hard and non-deformable but if you look at it with your mind it takes the shape you want; heat it, shape it and it will become what you imagined!”. He couldn't have given me a better gift! From that moment I began to speak with metals as if they could understand my desires: when I modeled with the flame and the hammer I asked the metal to tell me when it was time to strike and it responded by acquiring the color of incandescence: "come on , beat” – he seemed to say to me – “I'm ready to shape myself as you want me!”. At the beginning of the 70s I enrolled at the Trossi Umberti Academy where the painting teacher was the maestro Voltolino Fontani. After making my first life drawing, the teacher made me move directly to painting, even though the drawing course should have lasted a year. This was how my adventure as a student painter ended! My rebellious character did not allow me to accept impositions: it was precisely the color green that made me interrupt the course; my green was different and I couldn't bend to make it the same as my teacher's green, as he wanted and as all the students had done! Painting, like all other arts, is feeling and comes from one's own self, not from that of another person. During the period in which I worked at Moto Fides, I used the waste from production to create small sculptures representing the department heads; highlighting their most obvious flaws; and they were recognizable even if the materials used were only tubes, plates, springs and so on. However, all this did not satisfy me because they were things I had already seen, while I was looking for something different, of my own. Seeing my work one should have been able to say: “It's Filippi”. I wasn't interested in the positive or negative critical judgment given by recognized critics or by those who feel like coaches of the national football team... watching the matches on TV. The passion for art in all its forms lived forcefully in me and I felt I manifested it in every aspect: and so I loved poetry, music: I painted, danced, sang and played. But his true passion was and is sculpture. I have never set out to forge with my works a pseudo-intellectual message on the problems of life or the psyche: I wanted to create in work the news of everyday life, the lives of people and common things. Thus were born: “The Bull”, “The Skater”, “The Clock”, “Third Millennium”, “The Rhinoceros”, “The Shoes”, “The Coat”, “The Armadillo” and the largest “ Freedom,” depicted by a man on a large Harley Davidson motorcycle. All made using my ability to work metals, bending and forging stainless steel or bronze sheets. All rigorously forged and never melted. When they ask me how long it takes me to create a sculpture, I almost always answer: "Forty years (but of experience)". The various critics who have written about me have always highlighted the "patience, perseverance" that according to them I need to create my works. I, on the other hand, think that a year or more of backbreaking work is nothing compared to eternity, just a drop of water in the sea! Contrary to many, my journey began with the informal and ended up with hyperrealism. And so I continue my journey: with the conviction and profound joy of the certainty that these works will remain after me and in them I will continue to live.
New Educational Approaches for IT and Entrepreneurial Literacy of Senior Artisans
PROJECT:
2020-1-RO01-KA204-080350
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